CONFERENZA DEL MATTINO
Abramo - siamo circa 1800 anni prima della venuta di Cristo - aveva settantacinque anni quando venne chiamato da Dio e lasciò la terrra di Canaan (Gn:12,4) Va detto che non sappiamo come all’epoca contassero gli anni, cioè se fossero come gli attuali di 365 giorni. A lui viene promessa una terra e comandato di partire verso un luogo che lui non conosce e che il Signore gli mostrerà . Nel cammino dovrà affrontare prove su prove, ma della terra promessa non si scorge neanche l’ombra. Passano così dieci anni di promesse.
Dio permette che anche noi oggi siamo provati per mostrargli che ci fidiamo realmente di Lui.
Più tardi Dio rinnova ancora la promessa ad Abramo, quand’egli aveva novantanove anni (Gn 17,1). Dio gli disse: Io sono Dio onnipotente, cammina alla mia presenza, etc. ; qui il servo Abramo ha un momento di cedimento; mentre il Signore gli rinnova l’Alleanza dicendogli che Sara avrà un figlio, Abram si prostrò a terra e rise dicendo dentro di sé: ad un uomo di cent’anni nascerà un figlio e Sara all’età di novant’anni potrà partorire? (Gn, 17;17) ed intanto Abramo continua ad essere nomade, continua a non vedere la terra promessa. Ma Dio domanda obbedienza, e fa così perché ne ha tutto il diritto. Nell’Evangelo leggiamo che Pietro agirà diversamente dicendo a Gesù. Ecco noi che abbiamo lasciato tutto per seguirti, che cosa ne otterremo.
E noi: quanta pazienza abbiamo? Qual è la nostra capacità di attendere fiduciosi nella promessa del Signore?
Finalmente a cento anni Abramo ha un figlio (Gn 21,5).
Nel tempo dell’attesa è solo la nostra meschinità che ci mette in difficoltà perché ci fa dubitare di Dio. Ed attenti: Dio non chiede mai cose che superino le nostre forze; semplicemente ci chiede quello che noi possiamo dare.
Ergo: la discendenza tarda a venire, la terra promessa non si vede
Alla fine, quando Abramo ha la discendenza, Dio gli chiede una cosa assurda: offri il tuo unico figlio in sacrificio di olocausto. E, come sappiamo, Abramo ubbidisce e poi sappiamo qual è il resto della storia con il solenne rinnovamento della promessa di Dio al suo servo.
Noi invece poniamo sempre dei limiti a Dio, magari col tempo siamo disposti a dare a Dio, a dare anche assai. Daremo fino a 90, ma se ci chiede da 90 a 92…No, questo proprio non te lo posso dare! Quella cosa non posso lasciarla!
Il seguito della storia di Abramo la conosciamo: prima muore Sarah, nella terra di Canaan e verrà seppellita nella caverna di Macbela che Abramo comprò dagli Hittiti. Finalmente anche Abramo muore all’età di centosettantacinque anni e viene seppellito accanto a Sara (Gn 25,7 e ss)
Cosa impariamo da Abramo:? La fede, la speranza nella promessa di Dio, la pazienza, la fedeltà a Dio.
Abramo si sente il servitore, obbedisce sempre e comunque a Dio verso il quale non avanza pretese.
Mosè è il secondo personaggio che ci viene proposto stamani: se volessimo cercare una frase che condensa la figura di Mosè, la troviamo in Es. 33,11: loquebatur autem Dominus ad Mojsem facie ad faciem sicut solet loqui homo ad amicum suum (la frase la riportiamo nel testo della Vulgata di S.Girolamo, perché la traduzione italiana non è altrettanto espressiva)
Mosè è l’amico di Dio (loquebatur Dominus ad Mojsem sicut solet homo loqui ad amicum suum) ed egli obbedisce ai comandi di Dio in una continua tensione tra la missione che Dio gli ha affidato e la ribellione del suo popolo, un popolo dalla dura cervice.
Ricordiamo che Mosè è cresciuto ed è stato educato come un principe alla corte di Faraone. Ad un certo punto però accade un fatto: mosso dall’ira per le angherie alle quali sono soggetti i suoi fratelli, uccide un egiziano ed è costretto a fuggire in esilio nel deserto (Es 2,11-12): vide un uomo egiziano colpire un uomo ebreo, uno dei suoi fratelli e colpì l’egiziano. Poi Mosè ebbe paura e fuggi nel paese di Madian (Es:2,15). E’ qui, nel luogo del silenzio e della solitudine, che egli incontra Dio e riceve una precisa chiamata. (Es. 3,7 e ss) Il Signore disse a Mosè: ho visto l’oppressione del mio popolo che è in Egitto, ho udito il suo grido, e voglio scendere a liberarlo….ecco, io ti mando da Faraone. Dio lo rassicura inoltre dicendogli: Io sarò con te (Es:3,12). Mosè in quel momento – e qui si nota l’atteggiamento tipico dell’Israelita - fa un po’ il difficile, il polemico con Dio (ES.3,13): Mi diranno qual è il suo nome? Che cosa risponderò loro? E Dio puntualmente gli risponde e lo rassicura su ogni cosa.
Nella sua missione Mosè deve costantemente lottare, non deve solo affrontare Faraone ma anche un popolo che gli si rivolta e lo accusa.
E’ una esperienza che può capitare anche a noi, quando cerchiamo di servire Dio; sono a volte in nostri stessi fratelli che ci accusano, sono essi stessi a farci del male.
Ma Mosè va avanti. Durante tutti i quarant’anni di cammino gli Israeliti non cesseranno di ribellarsi: ci hai portato a morire nel deserto! Essi hanno paura. Con le cipolle degli egiziani stavano bene, la vita era “tranquilla”, non lottavano! Ora devono lottare, ma stanno anche conquistando la libertà.
Non dovremmo mai assumere un atteggiamento di accusa verso Dio. Noi non abbiamo da avanzare diritti davanti ad un Signore così grande e buono! Il Signore chiede, certamente! E noi dobbiamo fare ciò ch’Egli chiede.
Il Vitello d’oro che il popolo si costruisce (ES:32) non è tanto un idolo di quella regione quanto l’immagine che noi ci facciamo di Dio, un Dio a nostra misura ed a nostro “uso e consumo”. E’ ammirevole come In queste vicende che mettono a dura prova Mosè, egli non si arrenda e questo perché ama il suo popolo ed intercede, non una ma più e più volte. Egli arriva a portare su di sé il peccato del popolo, subendone le conseguenze (e qui egli è immagine del Redentore che porta su di sé il peccato del mondo) fino a pagare per il popolo la pena di non poter entrare nella terra promessa da Dio.
Ebbene, Mosè a volte “litiga”, discute col suo Dio, e sempre come amico, e senza superbia! Mosè arriva a questionare con Dio, ma mai – diciamo mai! – accusa il Signore. Diversamente aveva agito Adamo quando rimproverato da Dio lo accusa dicendogli: la donna CHE TU MI HAI MESSO ACCANTO mi ha dato questo, come dire che la colpa è di Dio.
Elia è la terza figura proposta in questa riflessione: Israele è ormai stabilito nella terra promessa. C’è un regno, e questo ha già subìto negli anni una divisione tra il regno del Nord (Israele) e quello del Sud. Ora, nel regno del Nord vengono introdotte delle divinità. Elia come tutti i profeti ha un compito essenziale: ricordare ad Israele che deve essere fedele a Dio. Vi erano gli adoratori di Baal (cioè del demonio, da Baal viene Beel Beelzebub). Come sappiamo Elia sfida i sacerdoti di Baal sul Monte Carmelo (1Re 18,19 e ss) . In questa sfida se ne prende persino giuoco dicendo loro: Gridate più forte perch’egli è certamente dio, però è forse occupato in affari, o in viaggio, dorme e dev’essere destato. La sfida si conclude con l’usccisione dei sacerdoti di Baal. Contro Elia si accende però l’ira della regina Gezabele, Elia si impaurisce (1Re:19,3) e – stanco – fugge nel deserto: s’inoltrò nel deserto pel cammino d’un giorno ed andò a sedersi sotto d’una ginestra e disse: ora basta, Signore, prendi la mia vita perché io non sono migliore dei miei padri (1Re 19,4 e ss) .
Anche Elia, come già Abramo e Mosè, ha un momento di debolezza ed anche Elia in quel momento non insulta Dio, non lo accusa.
Elia come Mose ci mostra che la vita nella sequela del Signore è una continua lotta; in questa lotta può capitare il momento dello scoraggiamento. Ma Dio ci abbandona.
Elia riceve dal Signore un cibo misterioso (figura dell’Eucaristia) col quale avrà forza di camminare fino al monte di Dio, l’Horeb.
Questo ci insegna che anche noi possiamo andare avanti nel cammino spirituale solo con la preghiera ed i sacramenti.
Sappiamo poi che Dio si mostra ad Elia nel deserto in una brezza leggera. Elia è anche l’uomo del ritiro nella solitudine, del silenzio. Dio parla sempre nel silenzio. E per questo oggi non riusciamo spesso a cogliere la voce di Dio. Troppe cose ci impegnano la mente e non sappiamo fare silenzio. Di Elia ci è infine detto che al termine della sua missione terrena viene assunto in cielo (2Re, 2 e ss) .
Così impariamo dall’esempio di questi tre personaggi la fedeltà a Dio, l’amicizia con Lui, il suo ascolto nel silenzio.
CONFERENZA DEL POMERIGGIO
Passiamo a considerare nel pomeriggio la figura della beata Vergine Maria. Maria era forse di stirpe sacerdotale. C’è una diatriba teologica sul fatto s’Ella fosse discendente di Davide oppure di stirpe sacerdotale. Don Federico propende per questa seconda ipotesi. Per assicurare la presenza del re Davide nella genealogia di Nostro Signore è sufficiente che essa vi sia da parte di Giuseppe come attestato del resto nell’Evangelo. L’ipotesi della stirpe sacerdotale di Maria è rafforzata dal fatto che Maria fu presto, a soli tre anni, consacrata a Dio entrando nel tempio: qui imparò bene le scritture e sapeva benissimo che il Salvatore sarebbe dovuto nascere da una Vergine. Quando riceverà l’annunzio dell’Angelo - e più tardi nella Presentazione al Tempio col vaticinio di Simeone - lei già sapeva che essendo stata scelta ad essere Madre del Verbo avrebbe sofferto molto. Maria ebbe sempre presente nella mente e nel cuore tutte le sofferenze che quel figlio avrebbe dovuto passare e fin da principio cominciò a sentirle nel suo cuore [ciò affermano diversi santi e dottori della Chiesa, in special modo S.Alfonso M. de’ Liguori -ndr]
In Maria SS. Vediamo l’icona dell’umiltà. L’umiltà è la virtù che ci mette in una situazione di verità, riconoscendo al contempo i doni di Dio. Nell’orgoglio invece l’uomo si compiace di sé stesso, dimenticando Dio.
Nella parabola del fariseo e del pubblicano non dobbiamo pensare al fariseo come un uomo cattivo; egli è davvero una brava persona, adempie con zelo e diligenza i comandi della Legge (come anche il giovane ricco), ma gli manca qualcosa…non si è reso contro che tra lui ed il Signore c’è un abisso. Il Signore non gli deve nulla. Per l’orgoglioso invece tutto è dovuto. Cerca “quello che gli spetta”. Noi dobbiamo invece avere ben presente che non arriveremo mai ad esaurire il nostro obbligo verso Dio. Pietro dice a Gesù: abbiamo lasciato tutto, etc. che ne sarà di noi? E Gesù su quel punto non gli risponde, ma dice: Voi che mi avete seguito, non voi che avete lasciato!
Bisogna rinunciare, fare le cose che Dio ci ordina, dobbiamo anche mortificarci, ma mai vantare pretese verso Dio per le nostre azioni. La rinuncia è un mezzo necessario, strumentale alla sequela del Redentore.
La Quaresima è un tempo forte e privilegiato per riscoprire la nostra sequela di Cristo. Dovremmo in ogni tempo vivere da veri cristiani e non da pagani. Gesù ci dice di amare il prossimo, anche i nemici. Eppure a ciascuno di noi nel corso di un anno accade sempre di odiare qualcuno. L’Epistola della Messa di oggi ci ricorda all’inizio: Si abstúleris de médio tui caténam, et desíeris exténdere dígitum, et loqui quod non prodest. Cum effúderis esuriénti ánimam tuam, et ánimam afflíctam repléveris, oriétur in ténebris lux tua, et ténebræ tuæ erunt sicut merídies., ci richiama a spezzare le catene dell’odio, del rancore, alla misericordia senza giudicare il fratello: solo allora nelle tenebre splenderà la tua luce e compiendo le tue opere buone sarai luce e darai gloria a Dio.
Ancora, nell’Evangelo la madre di Giovanni e Giacomo chiede al Signore che i suoi figli nel regno di Dio siedano accanto al Signore; l’uomo ricerca sempre la ricompensa, il riconoscimento, il premio, ma Dio ci richiama al nostro obbligo di servire incondizionatamente e senza avanzare pretese il Signore: non così deve essere tra voi, etc.
Il servo umile obbedisce sull’esempio di Maria Santissima. Nell’episodio dello smarrimento di Nostro Signore al tempio di Gerusalemme, dopo tre giorni, trovandolo tra i dottori che l’ascoltavano e l’interrogavano, Maria riceve una risposta apparentemente dura: non sapevate ch’io debbo occuparmi delle cose del Padre mio? La madre non capisce, ma non replica ed obbedisce serbando ogni cosa nel proprio cuore. Nel medesimo episodio Maria si rivolge al suo divin Figlio con queste parole: ecco, tuo padre ed io angosciati di cercavamo. La Madonna ama Giuseppe, è vera sposa di Giuseppe e Giuseppe non è una figura secondaria: attraverso di lui Gesù discende legalmente dalla stirpe di Davide. S. Giuseppe è il Paterfamilias e come tale agisce, è amato e rispettato da Maria: è lui che dà il nome a Gesù (nome comunicato a lui prima dall’Angelo, certamente), è Giuseppe che sostiene e custodisce la santa famiglia. Giuseppe è vero sposo di Maria, egli è unito alla sua sposa in un vero matrimonio, matrimonio verginale ma vero. E Gesù è comunque il frutto del matrimonio verginale tra Maria e Giuseppe. Riguardo alla figura di Giuseppe c’è anche da sfatare una interpretazione errata che si dà della sua reazione alla gravidanza di Maria. Evidentemente Maria non aveva detto nulla a Giuseppe di quanto l’Angelo aveva a lei predetto, e giustamente la sua fiducia altissima in Dio le dava l’intima certezza che Dio stesso avrebbe provveduto. Non entra in ansia pensando: ora il mio sposo che dirà, che farà… cosa non farà. Giuseppe d’altronde era un uomo giusto e conoscendo bene Maria non dubitava assolutamente di lei, né della sua intatta verginità. Il turbamento di Giuseppe è lo stesso turbamento di Maria: com’è possibile che la mia sposa divenga la madre del Messia, come è avvenuto questo? E l’Angelo puntualmente gli dà la risposta.
La Madonna dunque è una creatura, col singolare privilegio di essere esente dal peccato di origine, ma sempre una creatura umana e per questo Lei ci si propone come esempio da imitare e noi dobbiamo tendere all’imitazione delle Sue virtù. Maria ha in sé una ricchezza e psicologica e spirituale straordinaria alla quale dobbiamo guardare per imitarla.
Ed in conclusione fare sempre quello che ci viene detto di fare: non porre limiti davanti a Dio dicendo: questo posso ma quest’altro no! Impararando da Maria Vergine l’umiltà e l’obbedienza a Dio.
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